Progetto realizzato con il contributo della Provincia di Como

Il cuoco milanese e la cuciniera lombardo-veneta

Anonimo era ed è rimasto l'autore del ricettario, come quello di quasi tutti i Cuochi e le Cuciniere pubblicate tra la fine del XVIII e l'intero XIX secolo, derivati da Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi pubblicato nel 1766.... Il cuoco milanese e la cuciniera lombardo-veneta
Anonimo
Milano, Pagnoni editore, 1863.

1. L'autore
Anonimo era ed è rimasto l'autore del ricettario, come quello di quasi tutti i Cuochi e le Cuciniere pubblicate tra la fine del XVIII e l'intero XIX secolo, derivati da Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi pubblicato nel 1766 (a sua volta traduzione di La cuisinière bourgeoise di Menon del 1746), con varianti, aggiustamenti, tagli, correzioni e integrazioni che, a un occhio attento non riescono mai a modificare davvero l'idea di cucina e il modello gastronomico che vi si sottende. Pubblicati in decine di edizioni da diversi editori del Nord Italia, questi volumi, avevano un'unica vera finalità: quella di offrire un prodotto editoriale in apparenza da quelli dei concorrenti, così da soddisfare una richiesta sempre crescente di manuali gastronomici da parte della piccola e piccolissima borghesia.

2. L'opera
La maggior parte dei ricettari generati dal Cuoco "perfezionato a Parigi" ha scarsa originalità. Quello qui considerato si adegua pedissequamente al modello, lo sbriciola e lo ricompone, per farne confondere le tracce. Ne risulta una miscellanea di suggestioni internazionali e regionali sfuggite al controllo del redattore. Senza la mente unificatrice del cuoco, ciò che resta è una compilazione, oggi si direbbe un redazionale, dai contorni imprecisi in cui si fatica a cogliere la tradizione lombarda e prealpina. Il linguaggio è tanto povero e generico da rendere spesso difficile la realizzazione delle ricette. Le dosi degli ingredienti e i tempi di cottura non sono mai indicati. La materia è ordinata, come d'uso nei ricettari non professionali, per ingrediente principale, anziché per utilizzo pratico o per collocazione del piatto all'interno del menù. Considerandone tutti i limiti, può stupire che un ricettario (e il modello culinario in esso sostenuto, legato alle forme gastronomiche dell'ancien régime) sia potuto sopravvivere floridamente per oltre cento anni, senza mutamenti. Si può ipotizzare che il ritardo socio-economico che separava la borghesia dell'Italia settentrionale da quella parigina, in parte per la dipendenza del Lombardo-Veneto da Vienna, abbia limitato, in qualche modo il formarsi di una coscienza gastronomica regionale, come invece si era andata precisando nel Piemonte sabaudo.

3. La cucina del Cuoco milanese
Fino quasi all'epoca della rivoluzione francese, la differenza esistente tra la cucina quotidiana borghese e la cucina principesca era commensurabile solo in ordine all'abbondanza delle vivande e alle decorazioni. A partire dal 1750 circa, la cucina dei giorni normali si va distinguendo da quella dei giorni festivi, quella borghese da quella principesca per differenze di genere (si mangiano cose diverse), di qualità (freschezza, misura e peso, provenienza) delle derrate e di metodo, cioè di tecnica di preparazione. La cucina ordinaria invece resta ancorata ai vecchi usi, mentre quella festiva e delle case nobiliari esige tecniche e strumenti sempre più aggiornati e non disponibili ai cuochi non professionisti. Ciò anche come conseguenza del lavoro teorico realizzato da alcuni personaggi sui generis come Antonino Carême, il cuoco-pasticcere del principe di Talleyrand e dei Rothschild; come Anthelme Brillat-Savarin, il primo gastrosofo, autore della Fisiologia del gusto ossia meditazioni di gastronomia trascendente; come Alexandre Grimod de la Reynière, il capostipite dei giornalisti gastronomici, autore dell'Almanacco dei Buongustai ossia calendario nutritivo: tutti personaggi tesi a fare della gastronomia non più solo un'attività pratica ma una scienza e un'arte, come dirà alla fine dell'800, Pellegrino Artusi.
Nella pratica, la cucina si sviluppava su tre livelli: quello dei grandi alberghi e ristoranti e di chi aveva al servizio cuochi professionisti; quello delle classi medie che utilizzavano cuoche di estrazione popolare provenienti da cucine professionali; quello di sussistenza, cui si piegavano le classi popolari. Il trait-d'union tra i diversi livelli era la cuoca popolare o contadina, impratichitasi da sguattera nelle cucine nobiliari, che assumeva la conduzione di una cucina borghese. Erano costoro le fruitrici della stampa gastronomica popolare, quale quella delle Cuciniere. Risultato: il ribassamento dei mezzi portava la riduzione delle pretese, ma contribuiva a dare alla media e piccola borghesia quel lustro e quel decoro cui aspirava.
Nel nostro anonimo ricettario, il ricordo della tradizione padana e prealpina sfuma di fronte al modello parigino: trionfi di carni di montone, abbondanza di quella selvaggina che era stata ingrediente privilegiato nella cucina dei secoli precedenti, e di pesci di mare, nella pratica quasi assenti dalla gastronomia lombarda; oblio del riso e della farina gialla. La supremazia va, comunque alla carne di bue, di manzo e di vitello, regina incontrastata della tavola. In comune con la cucina padana ritroviamo l'uso costante di lardo e burro, la frequenza di salse bianche e di formaggio, la menzione di alcuni piatti, ancora oggi in auge: le carote al burro, il cavolfiore con la besciamella, le anguille allo spiedo.

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